La battaglia di Troia dell'architettura

last modified Jan 14, 2011 04:23 PM
Antonello Stella, n! Studio Roma
Affrontare il tema del rapporto tra antico e contemporaneo significa naturalmente inserirsi nel contesto di uno dei grandi temi della contemporaneità e del dibattito architettonico di sempre. L’insidia quindi di affrontare temi già dipanati e di non aggiungere sostanzialmente nulla a quanto già detto, o addirittura esperito attraverso la prassi architettonica, è più che mai presente. Mi permetterò quindi in questa trattazione di far riferimento ad alcuni passaggi storico-critici dandoli in qualche maniera per acquisiti, proprio allo scopo di non ripercorrere sentieri già percorsi.Questo potrà certo apparire ad alcuni poco ortodosso,  ma il fine di questo intervento è, se così si può dire “tendenzioso” e questo modo di procedere è servito a raggiungere presto lo scopo senza troppo appesantire la trattazione  e arrivare quindi più sinteticamente alle conclusioni; poi in particolare difficile uscire dalla logica dicotomica che da sempre attanaglia il dibattito sul rapporto tra antico e contemporaneo in architettura; la situazione è da sempre quella di un campo di battaglia , se mi si permette la metafora, dove due eserciti si stanno ormai affrontando da molto tempo senza però il prevalere dell’uno sull'altro, con momenti di apparente supremazia che però non risolvono il conflitto, in attesa della vittoria finale che però sembra non arrivare mai. Una sorta di Iliade dove ognuno di noi è convinto di appartenere agli Achei e che alla fine avranno comunque la meglio sui troiani.Da un lato l'esercito dei conservatori nostalgici di un passato che essi ritengono portatore di valori superiori ad una contemporaneità non all'altezza; e dall'altra quelli che ritengono la contemporaneità come una condizione ineluttabile ed una qualsiasi forma di ritorno al passato come un tragico errore storico. Per sgomberare ogni equivoco dirò subito che io appartengo a questa seconda schiera e per dirla con le parole di Argan che già negli anno '60 in progetto e destino; sosteneva che porsi contro il procedere della storia significava mettersi fuori dell'ordine naturale delle cose, dalla storia e fuori dal tempo stesso. Proverò quindi qui a sostanziare la ragionevolezza di questa mia posizione delineando il contesto storico entro cui la colloco e motivando perchè mi sento di essere dalla parte degli Achei. Va detto però che quanto finora espresso vale in realtà soprattutto nel mondo occidentale. E’ noto infatti che le civiltà orientali non ragionano in termini di contrapposizione dicotomica tra un prima e un dopo ed hanno un concetto della storia decisamente più fluido del nostro, basti pensare che nelle lingue cinese e giapponese , il concetto di “antico” equivale a quello di “vecchio” per cui una cosa,quando è vecchiao; si ripara o si sostituisce e basta, che sia come quella che c’era o in altro modo. Allo stesso tempo la questione della codificazione del come intervenire sul preesistente e quindi del rapporto tra antico e contemporaneo è nel mondo occidentale, da sempre, o almeno in epoca moderna, questione posta con grande enfasi in ambito architettonico proprio nel nostro paese. In questo specifico campo l'Italia si è trovata per tutto il XX secolo a porre il rapporto tradizione-innovazione al centro del dibattito e tutt'ora il tema rieccheggia in molte occasioni di confronto tra architetti, come questa di Perugia.Richiamo brevemente questa specificità del dibattito tutto italiano intorno all'architettura perché a mio avviso questo è il fatto principale da cui partire per collocare la riflessione che sto qui dipanando. Non possiamo non riconoscere che la centralità del rapporto tradizione-innovazione è una via tutta italiana all'interno del dibattito sull'architettura nel XX secolo, ma soprattutto è facile riconoscere che tale dibattito più che in altre realtà del mondo occidentale si è mantenuto nel nostro paese vivo e costante fino ai nostri giorni.Se il primo impulso di radicale rinnovamento e di rottura con il passato del secolo appena trascorso affonda le proprie radici in quel movimento futurista che vede tra i protagonisti artisti ed intellettuali italiani, è anche vero che, in campo architettonico,l'eredità reale di tale rivoluzione macchinista lascia ben presto i confini del nostro paese per posizionarsi oltralpe , in Francia e Germania soprattutto, lasciando al di qua delle Alpi solo qualche utopico disegno, che influenza  molto di più la prassi al di fuori nei nostri confini  che non sul suolo pàtrio. La mazzoniana centrale termica della stazione di S.Maria Novella unitamente alle agili ed essenziali, come lo stesso Marinetti le definiva, pensiline in cemento armato della stessa stazione, sono certo poca e tardiva testimonianza di una reale architettura futurista.Ben presto quindi la modernità prorompente trova fertile terreno nel campo dell'architettura fuori dai nostri confini e le punte della modernità italiana, viste soprattutto nella rilettura storico critica fatta a posteriori, da Terragni a Libera passando attraverso Ridolfi, fanno proprio di questo cordone ombelicale con la tradizione dell'architettura la lettura in chiave tutta italiana del movimento moderno. L’esperienza dell’architettura italiana del ventennio fascista è ormai storicamente inserita in quest'alveo, e le stesse vicende legate all'opera di figure come Libera e Ridolfi dal dopoguerra in poi ( non ci è dato purtroppo di sapere quale sarebbe stata l'evoluzione del pensiero di Terragni in questo senso) hanno confermato questa lettura in chiave storicista del moderno italiano.Le vicende dell’architettura del dopoguerra in Italia segnano quindi , nelle sue punte più alte e significative, il forte radicamento degli architetti e della critica architettonica verso un’attenzione particolare e costante al concetto di continuità piuttosto che a quello di rottura con la tradizione, atteggiamento, questo, che trova poi ulteriore conferma nella parabola, da noi più duratura e radicata che nel resto del mondo occidentale , del movimento post-moderno, che proprio a partire dalla cura italiana di un evento internazionale come quello della Biennale di Venezia del 1980 getterà le basi per un’egemonia esauritasi solo in tempi recenti, diciamo all’inizio del nuovo millennio, e con qualche sacca di resistenza limitata a anacronistiche frange sparse nelle più malridotte aule dell’accademia universitaria. Tale egemonia ha trascinato con se anche alcune delle punte più elevate dell’architettura italiana, da Albini a Gardella, ed ha di fatto appannato, se non eclissato, la critica più radicale in favore di quella più continuista, ovvero la schiacciante vittoria di Tafuri e di Portoghesi su Zevi che ha poi consegnato le scuole di architettura di tutto il paese, nel migliore dei casi, ad una generazione di architetti dal grande afflato teorico quanto dalla scarsa conoscenza e pratica del progetto di architettura visto in un orizzonte di ricerca tecnica avanzata. Il fatto che in quegli anni, mentre fuori dalle aule universitarie si costruiva (eccome se si costruiva!) dentro le aule si teorizzava il fattore D (come disegno) come dimensione elitaria della ricerca architettonica quasi fosse condizione necessaria e sufficiente, la dice lunga sulla resistenza che la modernità intesa come progresso tecnico ha avuto nel nostro paese. Quanto qui sinteticamente delineato serve ad inquadrare il contesto in cui nel nostro paese, a partire dalla rivoluzione industriale, si è via via affermata una tenace resistenza alla contemporaneità. E non vale in questo caso recitare il solito motivetto che questo è dovuto alla particolarità ed alla unicità del nostro patrimonio storico-artistico. Tutte le città europee sono state, e lo sono tutt'ora, detentrici di un patrimonio storico paragonabile al nostro, eppure mentre nel cuore di queste città si ergono gru che mostrano la normale attività di una città in trasformazione, quando, raramente, questo accade da noi, l'inserzione del contemporaneo viene visto come un virus da neutralizzare il più presto possibile. Un esempio su tutti il caso della teca dell'Ara Pacis di Richard Meier a Roma, un episodio che in altre città europee avrebbe rappresentato uno tra i tanti episodi, tra l'altro di scala ridotta, di rinnovo urbano certo anche criticabile “nel merito; ,che però nella sua eccezionalità nel panorama di una delle città più resistenti alla modernità del mondo, ha focalizzato l'ennesima occasione di scontro tra Achei e Troiani. Questa resistenza ha generato, per diretta o indiretta conseguenza, un altro fenomeno che se da un lato ha contribuito ad immettere nel nostro paese il sano germe della contemporaneità; dall'altro pone interrogativi sullo stato di salute della nostra cultura architettonica, e dovrebbe da solo far riflettere sugli errori commessi. Tale fenomeno ha degli aspetti paradossali: il nostro paese è al primo posto nel mondo per numero di architetti laureati (secondo una stima pubblicata su edilizia e territorio circa un decimo degli architetti del mondo sono italiani, un architetto per ogni 400 abitanti contro, ad esempio, i 2300 della Francia ) eppure pochissimi sono gli architetti italiani, o meglio gli studi di architettura, che riescono ad affermarsi all'estero. Le due sole archistar internazionali italiane Piano e Fuksas, si sono in realtà prima affermate all'estero e poi, una volta consolidatisi, mosso dall'Italia verso l'esterno. Al contrario negli ultimi dieci anni, una nutrita rappresentanza di architetti stranieri ha trovato terreno fertile nelle nostre città cogliendo successi nelle poche ed isolate occasioni che si sono presentate. Sempre per citare la Capitale, oltre alla già citata Ara Pacis,le opere più importanti costruite o in costruzione (naturalmente fuori dalle mura storiche) sono di Zaha Hadid, Odille Decq,  Santiago Calatrava e dei due già citati Renzo Piano e Massimiliano Fuksas i meno italiani tra gli achitetti italiani ( non a caso estranei all'Accademia). Analogamente si potrebbe dire di altre città italiane come Milano, Venezia, Salerno...Il fenomeno potrebbe avere diversi risvolti. Nel primo caso non vedo altre motivazioni se non quelle legate ad un certo protezionismo unito ad una non competitività sul piano tecnico. Nel secondo  il giudizio è più complesso.  Sudditanza culturale delle Giurie? Invidia professionale che genera veti trasversali? Miglior capacità degli studi stranieri di cogliere un'stanza di rinnovamento e di rappresentatività della classe politica? Sta di fatto che il fenomeno è sotto gli occhi di tutti e deve essere preso in considerazione. Quanto finora esposto inquadra in un contesto più generale il tema particolare di questa occasione di confronto, ovvero l'inserzione del contemporaneo nell'antico che significa anche commistione tra antico e contemporaneo; ma era necessario per comprendere a fondo le riflessioni che seguono.L'istanza di inserire il contemporaneo sull'antico ha rappresentato e rappresenta tutt'ora nel nostro paese una delle più importanti nonché frequenti occasioni di messa in scena dell'architettura. Non a caso gli stessi finanziamenti comunitari che nell'ultimo decennio hanno permesso la costruzione del patrimonio museale del nostro paese ponevano il tema della ristrutturazione come unica possibilità per accedere ai finanziamenti stessi.Allo stesso tempo le esperienze del dopoguerra che legano in un unico filo rosso di continuità le opere di Albini e Scarpa fino al contemporaneo Canali, si collocano in un alveo, unico nel panorama europeo, di sapiente capacità di lettura del contesto che interpreta però il rapporto con la preesistenza in chiave di lettura immediata dell'intervento contemporaneo senza nessuna volontà di mimesi con l'antico. Tali eccezioni, forse tollerate perchè quasi completamente chiuse nel rassicurante involucro storico (con l'unica eccezione di Castelvecchio) sono però in quanto tali mosche bianche; in un generale panorama di sostanziale istanza di mummificazione del patrimonio esistente, anche quando non di particolare valore storico-architettonico dove la sola patente di vetustà del manufatto lo rende praticamente intoccabile.La politica del vincolo posto per legge e la costituzione delle Sovrintendenze, fenomeno unico nel panorama mondiale, che di fatto hanno esautorato il ruolo del progetto e della responsabilità del progettista in nome di regole non scritte, perchè “non scrivibili” (è mai stato, nella storia, il progetto di architettura svincolabile dalla figura del progettista?) dove vale nel migliore dei casi la regola del “meno peggio” ovvero intervengo meglio è che toglie ogni razionalità e quindi senso al processo del progetto, nell'illusione di una possibile neutralità del progetto stesso. Si è venuta a creare quindi una scissione all'interno dello stesso mondo dell'architettura dove il Restauro diveniva una specializzazione dell'architettura, fatta da “specialisti” che ben presto hanno  rimpolpato l'esercito dei Troiani (naturalmente dal mio punto di vista di Acheo....) a sua volta formato dalla fazione di quelli del dov'era com'era; o della mimesi, e dei fautori del non-progetto. La follia della parcellizzazione del sapere architettonico, perpetrato nell'accademia, fenomeno anche questo molto italiano, che ha addirittura separato il sapere tecnico-tecnologico da quello cosiddetto compositivo (su questo termine ci sarebbe molto da discutere ma andremmo troppo lontani), non han certo aiutato la cultura del progetto come strumento di indagine, rendendolo subalterno all'indagine storica o tecnica. Non va poi sottovalutata l'intrusione sul campo di alcune parti del mondo dell'associazionismo culturale e politico, come quello ambientalista, che in ambito architettonico fa spesso valere la formula” antico sta al bello come moderno sta al brutto”, e le battaglie di organismi, purtroppo con grande credito, come Italia Nostra, che ha trovato modo persino di scagliarsi contro le pale eoliche in nome della difesa del paesaggio italiano,  lo stanno a dimostrare. In questo si può trovare un alleato anche in Europa, in quell'Inghilterra stretta tra la morsa dell'High-tech e del movimento neo-storicista  rappresentato dal Principe Carlo. Ecco, questo è il panorama, dal mio punto di vista e con la necessaria sintesi le cui ragioni sono state premesse in apertura, del rapporto tra antico e contemporaneo nel nostro paese. Quello che si pensa oggi ha radici storiche profonde e ogni possibile evoluzione avrà certo tempi lunghi. Credo però che coloro i quali asseriscono che la specificità della cultura architettonica italiana risiede proprio in questa resistenza al contemporaneo sembrano non rendersi conto che la partita è tutt'altro che locale, lo è forse dalla loro privilegiata posizione , ma non lo è certo per chi è impegnato nel mestiere dell'architetto, sempre più implicato in meccanismi di gestione complessi. Non è una lotta solo culturale, come quella messa in atto dai francesi per difendere le radici di una lingua contro l'egemonia linguistica nel mondo tecnico perpetrata dagli Yankees; il campo della battaglia è globale e di sistema. Concludendo con la metafora: la guerra di Troia è durata undici lunghi anni, e nella lettura del racconto, se non se ne conoscesse già la fine, sembrerebbe una battaglia infinita, con continui rivolgimenti di fronte. Per vincere servirà l'ingegno di Ulisse, il più saggio degli Achei. Ma dal tempo dei Troiani e degli Achei la saggezza ha sempre di più segnato il passo.Ritagliare l'azzurro del cielo. L'architettura del museo tra arte e architettura:il rapporto contenuto e contenitore nell'architettura dei musei. Volevo ritagliare l’azzurro del cielo”, così affermava Carlo Scarpa (1906-1978), uno dei maestri dell’architettura italiana nonché progettista di alcuni tra i più interessanti musei in Italia, a proposito del suo progetto per l’ampliamento della Gipsoteca dedicata alle sculture di Canova a Possagno, in Veneto nel nord-est dell'Italia.In questa affermazione sintetica ma allo stesso tempo densa di rimandi e significati, risiede uno dei temi principali del progetto di un museo: conservare e riparare gli oggetti esposti dalla luce diretta del sole e quindi dalle condizioni esterne, senza però negare del tutto un rapporto tra il contenuto del museo e il mondo esterno viste non solo come categoria dello spazio ma anche come categoria del pensiero. In questo senso, lo spazio del museo non è uno spazio a dimensione umana quanto piuttosto, operando una metafora, un tramite tra l'uomo e la sua storia dove l'architettura assume un significato evocativo. L'involucro architettonico assume allora significati particolari: la luce stessa, proveniente dall’esterno, opportunamente filtrata, deve entrare nello spazio interno del museo, allo stesso modo l’oggetto esposto deve rimandare ad un contesto culturale più ampio che è fuori dal museo stesso. Si può senz’altro affermare che lo spazio del museo è un flusso continuo tra spazio interno e spazio esterno dove l'edificio-contenitore, e quindi l’architettura del museo, diviene espressione di questa dicotomia. Ma, più in generale, allargando il significato della frase di Carlo Scarpa dalla categoria dello spazio a quella più teorica del significato dell'architettura, si può affermare che il museo è il luogo dove la dicotomia tra arte e architettura, tanto discussa dalla critica architettonica dell'ultimo secolo, si evidenzia maggiormente. E proprio nel museo che l'architettura dimostra di non poter essere semplicemente un fatto tecnico.Questa riflessione acquista in questa sede, una rivista di architettura rivolta ad un pubblico orientale, ulteriori significati: è noto infatti come una delle principali differenze tra la cultura occidentale e quella orientale sia proprio quella di percepire le cose, gli eventi e più in generale il mondo intero per coppie opposte, mentre la visione orientale del mondo predilige l'unità della visione; in sintesi: noi occidentali pensiamo l'uomo ed il mondo come entità separate mentre per l'orientale l'uomo non è altra cosa dal mondo. Si potrebbe dire: non l'uomo che osserva la sua storia, come fossero due entità separate, ma l'uomo nella sua storia. Il confronto tra le due culture, attraverso l’architettura, può generare spunti interessanti, aiutati dal fatto che l'architettura sposta il livello del confronto dal campo tecnico e tecnologico,forse meno interessante, su quello culturale. Il ragionamento sul museo rende la questione tecnica, per quanto necessaria all’architettura, secondaria. Per questo, se per noi occidentali la questione della dicotomia tra arte e architettura ha alimentato la discussione sull’argomento nel secolo appena trascorso, così non è stato nel mondo orientale dove tale discussione non ha avuto, e non ha tuttora, senso di esistere.Il concetto stesso di Museo pone in essere tale dicotomia. Non è forse il museo il luogo che contiene l'arte ponendosi esso stesso come oggetto artistico-architettonico? Si vedrà poi più avanti nello scritto come il “contenuto artistico; del museo assuma connotazioni via via diverse. Gli esempi mostrati nel numero della rivista pongono senza dubbio tale interrogativo. Molti degli esempi qui pubblicati non si presentano come delle scatole anonime pensate essenzialmente come contenitori funzionali alle opere d'arte: architetture a puro servizio dell'arte, dove lo spazio dell’allestimento è pensato esclusivamente in funzione della luce, dei colori, dei flussi delle persone che dall'esterno filtrano verso lo spazio interno e delle condizioni ottimali dell'opera d'arte. Queste non sono le uniche preoccupazioni dell'architetto, sono dati fondamentali per il progetto, ma non sono gli unici. L'architettura del museo aspira a divenire, qui più che in altre tipologie architettoniche, l'opera d'arte. Se, quindi, il museo è l’edificio che maggiormente evidenzia il problema del rapporto arte/architettura, gli esempi mostrati in questo numero della rivista, che rappresentano tra le opere più significative dell'architettura contemporanea, sembrano indicare che la distanza tra opera d'arte e opera d’architettura si sta sempre più accorciando. Molto forte appare nella maggior parte degli esempi la volontà dell'architettura di mostrarsi come opera d'arte, nel senso che l'involucro non vuole essere il più anonimo possibile; se la lezione dell'architettura del Movimento Moderno di cui Scarpa, seppur con un linguaggio del tutto personale è un continuatore, tendeva a interpretare tale rapporto riducendo al minimo gli elementi di espressività architettonica, (per Scarpa la sola luce), per gli architetti contemporanei l'involucro architettonico, pur nel rispetto e nella ricerca di un corretto rapporto con il contenuto artistico e delle necessità espositive dello spazio interno del museo, non deve rinunciare ad una sua autonoma espressività. E non si tratta naturalmente di una semplice volontà formale: la volontà di espressione artistica non deve essere confusa con una sterile volontà di forma. In questo senso l'architettura contemporanea ha assorbito le ultime tendenze di espressione dell'arte, che è sempre meno figurazione e sempre più performance sempre meno forma e sempre più evento.. Ecco allora che molti degli esempi qui mostrati, anche, e forse soprattutto, quelli che apparentemente aspirano ad una riduzione al minimo dell'espressione formale, mostrano una grande volontà di espressione attraverso la materia che costituisce l'architettura. L'edificio museo diventa esso stesso oggetto da percepire e si manifesta mostrando in modo tutt'altro che anonimo la materia di cui è costituito. Si mostra come oggetto d'arte prima ancora di mostrare il suo contenuto. Aspira ad essere segno riconosciuto e riconoscibile nel paesaggio, sia esso naturale che urbano a seconda della sua collocazione.L'edifico di Scarpa a Possagno, è un esempio magistrale di architettura del Museo come interpretazione della tensione tra esterno ed interno sia in senso fisico che simbolico: lo spazio fisico esterno rappresentato per Scarpa dalla luce solare entra nell'edificio non attraverso delle semplici finestre, ma attraverso dei tagli angolari nel volume (sia nelle pareti verticali che in quelle orizzontali) che, come detto dallo stesso Scarpa, vogliono fondere le superfici dell'edificio con il piano ideale rappresentato dal cielo stesso. Le pareti interne sono uno sfondo il più anonimo possibile che deve dare il massimo risalto alle sculture del Canova. In realtà la volontà di Scarpa è proprio quella di annullare l'edificio come se le opere fossero esposte all’aria aperta, pur essendo protette dalle intemperie e avvolte da solidi muri. Analizzando invece molti degli involucri qui mostrati,essi sembrano interpretare la tensione tra interno-esterno. contenuto-contenitore, non come annullamento o riduzione al minimo di tale rapporto, ma come un rapporto fatto di continui rimandi. Senza l'involucro, al contrario del museo di Possagno, lo spazio espositivo di questi musei apparirebbe probabilmente mancante di una parte fondamentale ed essenziale alla percezione del tutto. Tornando ora al parallelismo tra l'ottica occidentale e quella orientale, nel tentativo di operare una riflessione che possa far dialogare gli esempi europei qui mostrati, che rappresentano un'esperienza frutto di un lungo processo iniziato nel 1800 con le gallerie espositive che mostravano lunghe sequenze di quadri e sculture (2), con le possibili future tendenze dell'architettura per i musei in Cina, è possibile pensare ad un contributo futuro dell’architettura dei musei in Cina nell'ottica descritta in questo saggio: il punto di vista del pensiero architettonico cinese in particolare sul rapporto contenuto-contenitore e arte-architettura nell'ottica contemporanea, in un contesto, soprattutto quello urbano, in grande fermento. La grande attività architettonica che vede attualmente questo paese impegnato nella costruzione e ricostruzione di parti considerevoli del tessuto residenziale e terziario delle città si trova ora ad operare una necessaria riflessione sulla conservazione del suo enorme patrimonio storico, dal più antico al più recente. Questa riflessione acquista ulteriore significato in relazione alle esperienze degli ultimi due anni, quello corrente e quello appena trascorso, dedicati agli scambi culturali tra la Cina e due paesi europei, Francia (2005) e Italia (2006), che hanno visto l'intensificarsi degli scambi tra le due culture, quella europea e quella cinese soprattutto nel campo storico-artistico. La recente esposizione di una selezione delle principali opere d’arte italiane dal medioevo fino all’ottocento, con una particolare attenzione al periodo d'oro della nostra civiltà, il Rinascimento, al WAM di Pechino, che ci ha visto tra l'altro coinvolti nella progettazione dell'allestimento, si pone come un punto di partenza per una riflessione comune sul senso del rapporto tra opera d'arte e architettura, tra contenitore e contenuto in un ottica che tenga però conto dello scambio e dell'intersezione tra due culture storicamente diverse ma in prospettiva sempre più predisposte allo scambio. Il lavoro svolto in collaborazione con i la direzione e i responsabili del WAM per la realizzazione dell’allestimento ha evidenziato come molteplici siano le possibilità di collaborazione e scambio di vedute in questo campo. Tale esperienza sta continuando, sempre in relazione all'anno dedicato agli scambi culturali Italia-Cina, anche con una seconda mostra dedicata alle “Grandi Civiltà, e quindi di ampio respiro e dove il confronto si fa più stringente, che si aprirà in ottobre 2006. In questa direzione l'idea di separazione e di contrapposizione tra poli opposti, tipica del pensiero occidentale, necessita forse un ripensamento che può prendere il via proprio dall’apporto del pensiero più unitario del mondo orientale; così come allo stesso modo  l'esperienza maturata nella riflessione sul rapporto arte-architettura e più in generale tra uomo e opera d’arte e sua storicizzazione, può essere utile per il futuro dell’esperienza cinese nel campo museale. Quello che proponiamo quindi in questa sede, è di guardare non solo alle architetture in se e per se, nonché  alle esperienze maturate in Europa nel campo dell’architettura dei musei, che speriamo sia ben esemplificata dagli esempi mostrati, quanto piuttosto di osservare queste architetture anche nell’ottica qui descritta che va oltre il semplice dato architettonico e la pura apparenza delle immagini proposte.La necessità di ragionare oltre il dato puramente architettonico è inoltre supportata da una prospettiva che è solo parzialmente descritta in questo numero, attraverso alcuni esempi, ma che diverrà in futuro sempre più centrale nel campo delle realizzazione di musei: il contenuto dei musei del prossimo millennio sarà sempre più immateriale, seguendo del resto il corso stesso dell'evoluzione dell'uomo che vede sempre più prevalere la cultura dell'immateriale su quella materiale. Dal punto di vista dello spazio del museo questo significa che prevarrà sempre di più il racconto sull'oggetto esposto. Il contenuto sarà sempre di più rappresentazione, raccontata attraverso le più sofisticate tecnologie digitali, e il contenitore, quindi l’architettura, sempre più evocativo.L'idea di sradicare l’opera d'arte dal suo contesto per esporla in un altro luogo chiuso sta definitivamente per tramontare, è l'idea occidentale, romantica ottocentesca dello sradicamento dell'opera d'arte per costruire altrove un monumento che la conservi e valorizzi. Nella stessa Cina l'esperienza del grande Museo dedicato all'Esercito di terracotta di Xian dimostra come questo dato è ormai acquisito e come sia importante anche per lo sviluppo socio-economico del contesto dove insiste il bene culturale.D'altra parte partendo dall’assunto citato in apertura di questo scritto , ovvero che il museo è il tramite tra l’uomo e la sua cultura, il paradigma del museo come contenitore di oggetti sta per esaurirsi e lasciare il posto al museo-racconto. Il museo del futuro sarà sempre più un luogo degli eventi dove la produzione di sensazioni spaziali e percettive è più importante della presenza fisica degli oggetti. La virtualità entrerà sempre di più nello spazio dei musei.Questo passaggio di fatto può permettere il superamento della dicotomia contenuto-contenitore e più in generale arte-architettura. In questo senso i musei qui presentati, in quanto punta più avanzata della ricerca sull’architettura dei musei e sulle modalità dell’esporre, rappresentano già un punto di passaggio dal vecchio al nuovo paradigma: rappresentano un ponte tra e quindi un mix tra le due concezioni, non ancora del tutto immateriali ma non completamente contenitori di oggetti.

Diventando sempre più importante il racconto rispetto all’oggetto, le due culture , quella occidentale e quella orientale possono trovare, forse, maggiori punti di sovrapposizione. Spesso le forme nella loro apparenza differiscono molto di più di quanto non lo siano le storie degli uomini che le hanno generate. In questo senso, come già detto, le forme in quanto risultato diventano meno importanti rispetto alla volontà espressiva e quindi al processo che le genera, il processo storico diventa più importante del risultato. 

Questo atteggiamento di distanza dalle forme come risultato mette al riparo dai possibili rischi di “globalizzazione” insiti in questo ragionamento che vorrebbe avvicinare le due culture senza ovviamente disperdere le unicità in un appiattimento generalizzato. 

E’ proprio nel campo specifico dell’architettura dei musei, più che in altre tipologie  che il confronto tra le due culture può generare nuovi orizzonti di ricerca e aprire prospettive da ambo le parti.

Il museo si pone come luogo della differenza, dell’identità legata a culture e luoghi, ma che grazie alla grande rete immateriale che ormai collega tutti noi, permette il confronto di tali differenze in una logica di scambio delle idee su scala mondiale. Lo spazio del museo si dilata a dismisura, e diventa di fatto un organismo vivo.

La lezione di Scarpa, da cui questo scritto è partito, si colloca all’estremo opposto delle conclusioni a cui si è pervenuti. Pur tuttavia proprio le sue realizzazioni museali che facevano di ogni oggetto da esporre un racconto autonomo e che interpretavano l’edificio museo come diretta emanazione del racconto, portano a pensare che il ritaglio di azzurro del cielo a cui lui voleva arrivare come risultato potrebbe essere punto di partenza per ricongiungere i due poli opposti del ragionamento.

Anche perché, in fondo, l’azzurro del cielo di Pechino o di Shangai  non è poi molto diverso da quello di Roma o Parigi, diversi possono anche essere gli uomini che lo osservano, nella prospettiva che sempre più pechinesi osserveranno il cielo di Roma e romani il cielo di Pechino.
 

 

Profilo dell'Autore

Legnano (MI) 1961, ha conseguito a Roma il Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica. Dal 1998 è ricercatore presso la facoltà di architettura dell’Università di Ferrara dove svolge attività di ricerca e didattica come titolare di laboratori di progettazione. E’ stato docente supplente al Laboratorio di Architettura degli Interni I anno alla Facoltà di Architettura “Valle Giulia” dell’Università di Roma “La Sapienza” . Nel 1990 è tra i fondatori di n! studio che dal 2002 prosegue con l’attuale denominazione n!studio Ferrini Stella architetti associati.