J’aime la vie parce que c’est jolie” (Boris Vian)

last modified Jun 01, 2010 03:59 PM
Mauro Galantino

 

Chiesa di S. Ireneo a Milano
Tutti i progetti più importanti hanno a che fare con la scrittura automatica, con quell’atteggiamento che lascia reagire concetti chiari con sviluppi solo intuiti.
Il caso di questa chiesa è emblematico.
Il concorso che chiudeva il Piano Montini, indetto dalla Curia milanese nel ’89, aveva tre aree. Così decisi di partecipare su due terreni, scientificamente. Volevo riflettere su un tipo desueto, consumato più dalla stilizzazione che dalle eccezioni fulgide.
Un edificio che doveva avere una ragione intellettuale per esistere oltre le inevitabili ragioni liturgiche e contestuali. Ho lavorato nove decimi del tempo su S.Romano al Gallaratese, poi vinto da D’Ardia e Andriani e riversato su S.Ireneo, di getto, la riflessione fatta. Erano chiese per le periferie, quindi organismi che dovevano produrre microurbanità e convertire le tracce penalizzanti in valori positivi. Un miracolo dell’architettura contestuale (speravo).

 

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A questo aggiungevo una riflessione , mai veramente metabolizzata per me, sugli aforismi di Michelucci, i suoi slittamenti verso l’arcaico per parlare del futuro, della natura per parlare di città, dell’espressionismo per parlare di una ragione cieca dei sentimenti. Tutte architetture che non mi piacevano formalmente, quasi che risentissi in loro la pretesa di non farsi accettare facilmente per evocare una zona più oscura e profonda, che si può solo evocare e non narrare.
S.Romano  era figlia di S.Ambrogio, e dello slittamento di elementi secondari (sport, opere) per comporre interni a cielo aperto in cui dilatare il microcosmo della chiesa. Pensavo ancora ad una cittadella.
Ma in S. Ireneo, l’esiguità del lotto ha comportato che S.Ambrogio rimanesse un semplice desiderio e che la nuova spazialità facesse parte dell’interno.
Così, nei quattro progetti redatti, i luoghi aperti sono divenuti parte dell’aula, del suo concetto di Forma maggiore, capace di accogliere la liturgia contemporanea e , indipendente da essa, produrre uno spazio in equilibrio con la mia interpretazione del Concilio Vaticano II, che sancisce la celebrazione come binomio celebrante assemblea. Ma anche il tema dell’”ovunque”, che rafforza il binomio e scolora la sacralità dell’edificio spostandolo idealmente: “ ovunque due  riuniti nel mio nome…” .
Un altro modo per parlare del nomadismo contemporaneo, almeno come la mia generazione lo ha vissuto. La materia architettonica si è scomposta in un “edificio contestuale” in mattoni, che regolava i rapporti con il luogo e un “edifico funzionale”, in cemento a vista, che delimitava gli usi. Tra i due, un terzo edificio fatto di luoghi aperti, un recinto di luce, il segno più arcaico di delimitazione, realizzato con l’assenza di materia. In questa corona, composta di sole, terra e acqua, dovevano essere posti i segni della religione cattolica e in essi si sarebbe dilatata l’aula. Aperture limitate mostravano al contempo il cielo e pezzi del quartiere, come la finestra a nastro del prefabbricato usato per trent’anni dalla comunità.
L’asse città, piazza, sagrato, porta, altare svanito con la serialità dei casermoni (oggi à la page) e sostituito da due luoghi urbani prodotti dalla disarticolazione del tipo-chiesa, uno slargo alberato sul fianco, con lunga panca urbana per i giovani e una terrazza a quota chiesa (+ 1 ml) perimetrata dal campanile, cappella, portico, dove di solito stanno le famiglie e i vecchi. L’ingresso da un portico (monumentale solo per chi lo attraversa), l’accesso sugli angoli, l’assemblea ruotata come nel quartiere Belvedere di Pistoia, una camera di luce verso sud, un patio con ulivi a nord e una fontana alle spalle del celebrante. 

 

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La rotazione tra città e spazio liturgico è la vera “soglia” tra i due mondi. In sequenza, separata dal patio bifronte dei giochi, si può passare alla zona ritrovo, pensata anche per albergare le riunioni delle tre religioni monoteistiche che Martini aveva affidato al giovane viceparroco.
Unico rimpianto: l’altare, non ancora realizzato e unico elemento non disegnato da me. Avevo scelto di riprodurre il tavolo ellittico disegnato da Bottoni per la famiglia ebrea Muggia, scomparsa tra il ’44 e il 45, sia per avere un pezzo del maestro razionalista a cui hanno guardato con affetto architetti milanesi poi approdati a posizioni distanti tra loro, ma anche per avere un altare-mensa che ci ricordi il passato prossimo e i le sue nubi. Approvato a Milano, non ha mai avuto un assenso a Roma.

 

Un frammento urbano a Modena
So che dovrei definire questo progetto Chiesa e opere annesse, ma il progetto è andato troppo oltre e, per quanto impegnativo, l’aspetto liturgico di questo edificio, vive grazie ad una strana visione dell’insieme.
Avevo cominciato come mai. Senza contesto. Preoccupato di far evolvere il “recinto di luce” milanese, verso uno spazio teso da una logica a “spirale” che ne accentuasse l’instabilità senza sciocchezze formali o trucchetti. Quatto piani verticali che si inseguono lasciando liberi gli angoli. Con quattro spazi esterni contenuti dal recinto dell’edificio, che dialogano con lo spazio interno. Frontalmente, rispetto ad ogni piano e tangenzialmente, da ogni angolo. E in ogni angolo, volevo porre un elemento significativo liturgico.

 

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Poi una zattera, un’altra immagine che mi perseguita, “Le radeau de la Meduse” di Gèricaud, che sostiene al centro l’assemblea e un piano inflesso steso su di lei, grande come la zattera, che la protegge come un velario. La tenda nel deserto che copriva l’Arca dell’alleanza.
Volevo una luce ancora più terrena di quanto fatto a S.Ireneo nel registro dello sguardo, della celebrazione e una luce indiretta dall’alto, più rarefatta e meno drammatica di Milano.
Infine la liturgia, per la quale questo spazio era pensato capace d’accoglienza dall’inizio. 
Dui lati di questo nucleo, di questa, in pianta, girandola stabilizzata dai fuochi della celebrazione, il lavoro sugli elementi della vita terrena: la scuola, l’auditorim, le case.
E il contesto è tornato subito, in parallelo al primo lavoro, per decidere posizione e misura del primo spazio esterno abbinato alla pianta, che consente di fare entrare la città in profondità, evita di affacciare una piccola chiesa sul grande viale e le crea il suo spazio di risonanza. Fatta questa scelta, trovata questa misura, anche grazie alle prescrizioni della Cei, lo spazio dell’aula ha trovato posizione, seguendo il movimento dello spazio, è ruotata la disposizione degli elelementi.
 

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Si entra come al Belvedere di Pistoia, dal grande taglio, si traguarda il punto finale, la cappella della custodia e si scorre tra battistero e assemblea, orientata trasversalmente rispetto al movimento d’ingresso. Altare e ambone sono contrapposti, le persone si fronteggiano.
E’ la disposizione liturgica che questa comunità pratica. Questa chiesa è la loro chiesa.
Un altro elemento significativo è lo spazio della cappella, composto dalla tensione tra il piano narrativo a sinistra, con la grande pietà pittorica e il piano evocativo a destra , con la vista sull’acqua. In asse lo spazio più piccolo della chiesa per contenere il tabernacolo, esposto quasi in un volume domestico, al quale rivolgersi senza mediazioni. Sopra, collegabile con lo sguardo al ricetto domestico, un cubo di cielo.
I quattro spazi aperti, interni alla chiesa, patio, orto degli ulivi, vasca d’acqua e sagrato, compongono quattro scale di dilatazione dello spazio interno, due percettive, due d’uso. L’indistinto dell’urbanizzazione si articola e si collega con l’edificio attraverso questiluoghi d’architettura.
 

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Un campanile è una facciata, montata sul corpo dei servizi con la disposizione in orizzontale delle campane per l’uso tradizionale modenese (one man, one bell).
Tra il suo coronamento e l’aggetto che segna il piano d’ingresso dell’aula, è svolto un piano inflesso continuo, un nastro sospeso che accoglie le sedute.
Sullo spazio opposto del patio si raccoglie un sistema di case, che tipizza una casa-albergo, due case per religiosi in comunità, e il “conventino” dei tre preti, composto di cellula singola, deambulatorio interno per le letture, sala comune.
Seguendo l’articolazione della forma, una linea ordinatrice avvolge lo sviluppo plastico, senza interruzione, di tutto l’edificio.
 

Profilo dell'Autore

Mauro Galantino, nato a Bari nel 1953, si laurea a Firenze in composizione nel 1979. Si trasferisce a Parigi con una borsa di studio dal 1981 al 1983. In questo periodo alterna lo studio dei fenomeni urbani della recente pianificazione francese alla collaborazione con gli studi Piano, Chemetov, Devillers per la redazione di concorsi. In occasione del progetto per il bicentenario della rivoluzione francese entra in contatto con Vittorio Gregotti e si trasferisce a Milano, dove collabora con il suo studio dal 1983 al 1987. Nello stesso anno apre un proprio studio professionale e inizia l’attività d’insegnamento presso la scuola di architettura di Ginevra, dove lavora fino al 1994. Da quella data ha insegnato come professore invitato all’università di Girona, alla scuola di architettura di Strasburgo, di Paris Belleville , alla scuola politecnica di Losanna e, attualmente, allo IUAV di Venezia. Ha partecipato a numerosi concorsi internazionali ottenendo riconoscimenti per le sedi del parlamento a Berlino e Vienna, a Firenze, dove ha realizzato un Europan 2 e a Milano, dove ha costruito una chiesa. Ha in corso di realizzazione alcuni centri scolastici, ad Arezzo, San Giovanni Valdarno e Arcore. Ha pubblicato alcuni saggi critici su Ciriani, Gregotti, Michelucci e Braillard, nonché un saggio sullo sviluppo urbano di Bath nel XVIII secolo.