Architettura sensibile, architettura educativa

last modified May 18, 2010 03:49 PM
Monica Mazzolani Antonio Troisi

Nella realizzazione della scuola per l’infanzia “Lama Sud” a Ravenna, ci siamo spesso sforzati di immaginare l’architettura con la misura e con gli occhi dei bambini, pensando quindi alle loro reazioni, alle loro emozioni e in particolare alle loro necessità e avidità di scoperte.

Si è colta l’opportunità di ‘partire dai bambini’ per ritrovare gli elementi essenziali che in realtà dovrebbero sempre strutturare l’architettura: lo spazio, il rapporto con gli elementi naturali primari (luce, aria, acqua, vegetali) e con l’ambiente circostante nelle sue diverse componenti, le relazioni con gli utenti finali e la corrispondenza alle aspettative della comunità.
E proprio ‘partendo dai bambini’ ci è sembrato più facile progettare, dimenticando le forme più tradizionali e standardizzate dei nostri edifici per ritrovare nuove coordinate spaziali, più consone e stimolanti alla vita di una comunità scolastica di quelle dimensioni.
Sembrava possibile ridefinire le qualità di un edificio dimenticando i codici storicistici e tuttavia ritrovando la tradizione nelle materie prime e nelle tecnologie che oggi risultano particolarmente attuali come i mattoni faccia a vista e la terra cotta, che dà isolamento e traspirazione.
E’ stato in un certo senso un percorso a ritroso per ritrovare una sorta di purezza ideale nelle modalità con cui un’architettura interagisce con i suoi abitanti, in questo caso bambini nelle prime esperienze di vita. E’ la purezza delle loro emozioni quando, ad esempio, la luce, filtrata in raggi, diventa quasi materia magica o l’acqua, in un violento temporale, trasforma i doccioni in cascate giocose, rivelando le forme del fluire. E’ successo quindi che ci sia stato un fluire di pensieri che riportavano all’infanzia, che si confrontavano con le esperienze delle pedagogiste di Reggio Children, che hanno collaborato con noi e che hanno prodotto quel terreno fertile da cui è nato il progetto.

Liberata la mente dagli stereotipi, ci ponevamo delle domande: quale spazialità poteva essere adeguata ad accogliere i bambini coniugando spazi limitati dove spontaneamente potessero ritrovarsi in piccoli gruppi o grandi spazi dove riunirsi tutti insieme per eventi e festività?
Oppure: come regolare le diverse proporzioni di questi ambienti con un elemento unificante e rassicurante, ma al tempo stesso caratterizzante per forma e riconoscibilità?
Ed è sul tema sensibilità, in particolare nell’esperienza di apprendimento dell’infanzia, che è cominciata la progettazione, diventando poi presupposto trainante per tutti gli aspetti del progetto.
Ecco perché lo spazio interno è modellato in modo fluido partendo dalla copertura, che formalmente tanto si avvicina a una tenda o a una coperta che dolcemente si adagia su una superficie piana. Come una coperta non contiene asperità, né spigoli e come una coperta contiene all’interno vuoti di diverse dimensioni che corrispondono ai locali dove si svolgono le varie attività della scuola, dagli atelier alle grandi sale, dai patii alle sezioni etc.
Diverse dimensioni planimetriche, diverse altezze, flessibilità nella configurazione data dalle pareti mobili. Sequenza complessa di spazi semplici, diceva Giancarlo De Carlo, quasi una metafora della città, dove piccole unità si aprono su percorsi e spazi di diversa misura e  dove la vita sociale diventa scoperta al pari delle strutture architettoniche.
In questo senso l’architettura poteva contribuire alla crescita degli individui, stimolandone la comprensione dell’ambiente e del modo di usarlo, provocando la loro curiosità e inducendoli alla “scoperta”, caricando questo sostantivo di tutti i significati che può assumere.  Si poteva considerare educativa perché favoriva le forme di aggregazione spontanea dei bambini, si dimostrava equilibrata nelle dimensioni e flessibile nelle diverse situazioni, rendendo l’ambiente rassicurante e allo stesso tempo divertente. In sintesi facilitare “la scoperta” in un ambiente protettivo.

Visitando la scuola si sente che il nostro mondo di ‘adulti’ costruito per lo più ad altezza di tre metri costituisce un assurdo limite al nostro ‘stare’, la nostra esperienza spaziale limitata ad un’unica dimensione, piatta e insensibile. Così, per contrasto, le insegnanti descrivono con entusiasmo il rapporto di leggerezza che le strutture di copertura comunicano. Dalle discussioni molto stimolanti che abbiamo avuto dopo l’apertura della scuola è risultato evidente che questa valenza “educativa”  che permea l’architettura ha in qualche modo influenzato anche il loro modo di seguire i bambini; il risultato che più spesso mi è stato comunicato è che erano meno stanche di prima.

Solo alla fine del lavoro, quando la scuola è entrata in funzione, ci siamo resi conto come anche all’interno della comunità essa era diventata un luogo ‘sensibile’. Non a caso uso questa espressione per sottolineare l’importanza che ha assunto nella collettività, che la riconosce e la vive come un elemento qualificante della periferia, dimostrando che ci sono opportunità che solo la periferia - ma forse dovremmo smetterla di chiamarla così e dire piuttosto la “nuova città” - può offrire ai suoi abitanti: in questo caso una scuola con un grande parco, modellata sulle necessità dei bambini.
Insomma, sentire che le iscrizioni a questo asilo arrivavano anche da altri quartieri ancora prima della sua apertura, rendeva i cittadini fieri della loro scuola, determinando la sua centralità nel quartiere. Centralità legata anche ad altre opere di connessione, come la nuova strada e due ponti che hanno cambiato la geografia di tutta l’area.

Ci chiediamo se associare la definizione di ‘sensibile’ a una architettura sia corretto.
Se si tratta di puro assemblaggio di materiali da costruzione, che nulla condividono né con il contesto circostante né con i loro abitanti allora certamente non lo è.
Ma se al contrario ci si riferisce a strutture pensate per essere reattive, cioè capaci di adattare il loro stato per interagire agli stimoli esterni o per corrispondere alle necessità degli abitanti, allora possiamo definire ‘sensibile’ questo tipo di edificio.

Vediamo del resto già molti edifici che, come la nostra scuola, interagiscono con l’ambiente esterno. Lo fanno ad esempio modificando il loro aspetto all’azione dei raggi del sole, oppure immagazzinando energia ed acqua. Interagiscono con forme vegetali creando quasi rapporti simbiotici, dove gli stessi vegetali formano la pelle dell’edificio. Acqua in cambio di protezione e filtro dai raggi solari.
Sembra in definitiva che l’architettura tenda lentamente ma inesorabilmente a diventare più organica rispetto a quella tradizionale, intendendo per organico non tanto la definizione che ne identificava stilemi formali, ma il tendere progressivamente a strutture organizzative complesse più vicine agli organismi naturali.
Nuove tecnologie e materiali antichi possono combinarsi; forme nuove, più vicine alle nostre reali necessità, possono sostituire le ormai esauste “tipologie” consolidate. Gusci naturali e leggeri, forme dettate dalla luce configurano spazi semplici e flessibili, identificano nuovi luoghi più aperti alla dimensione pubblica. Strutture realizzate con elementi naturali diventeranno esse stesse forme della natura fino a che la dicotomia tra naturale e artificiale cesserà di esistere.

 

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E’ difficile immaginare che l’architettura possa essere considerata educativa in senso stretto. Si può però sostenere che una buona architettura migliori la qualità della vita che si svolge al suo interno e incoraggi le persone a pretendere che i luoghi che abitualmente frequentano siano coerenti con l’uso che ne fanno e appropriati al contesto in cui sono inseriti. In particolare mi riferisco ai luoghi condivisi da una comunità che vi svolge le proprie attività principali: l’apprendimento, l’assistenza, tutte le funzioni legate all’espletamento dei pubblici uffici ecc.
E’ pertanto a tutti quei luoghi definiti “sensibili” all’interno delle città ai quali, prima degli altri, si dovrebbe richiedere di possedere coerenza e bellezza. La bellezza, si sa, è di per sé educativa e la coerenza dà una forma edificante ai principi di convivenza:

la società civile può vedere i propri princìpi fondativi assumere una forma; 
la collettività può misurare, nell’interpretazione dei bisogni e nel modo di soddisfarli, il proprio progresso istituzionale;
 e sulle generazioni future, che vengono formate sulla base di un’idea educativa comune, in spazi pensati a questo scopo, si potrà infine misurare il progresso della democrazia.

Si parla quindi,  in primo luogo, di edifici pubblici: scuole, ospedali, uffici, luoghi in cui le istituzioni democratiche hanno sede.  A questi si deve aggiungere l’edilizia sovvenzionata e convenzionata, poca per la verità in Italia, destinata a rispondere alle necessità delle fasce più deboli della popolazione. 

Perché questi luoghi risultino “coerenti e appropriati” occorre che rispondano a programmi corretti e condivisi, e che tecnici e amministratori che collaborano alla loro stesura non trascurino di utilizzare tutte le occasioni che possono stimolare la socialità.  Occorre che l’architetto sia in grado di progettare edifici rappresentativi delle attività che si svolgono al loro interno.


La possibilità, che solo alcuni edifici offrono, di svolgere in luoghi appropriati le attività necessarie alla sopravvivenza di una società democratica è l’espressione architettonica che mi pare più appropriato definire “educativa”.
L’architettura può quindi contribuire alla crescita democratica di una comunità quando risponde ai suoi reali bisogni e riesce ad esprimere quei valori che le danno il senso che vengano salvaguardati tutti i suoi diritti.  
Se si tratta di un edificio scolastico è fondamentale che la configurazione nasca dal riconoscimento di richieste specifiche e sia frutto dell’espressione di analisi metodologiche approfondite relative all’apprendimento, alla socialità, al ruolo che l’edificio dovrà assumere all’interno della città senza perdere occasioni preziose di consolidamento sociale e utilizzandone al meglio le potenzialità d’uso.
Se si tratta della sede di un’istituzione frequentata abitualmente dal pubblico e in cui si celebrano atti rituali e significanti per tutta la collettività, come accade per un Palazzo di Giustizia, è importante non dimenticare l’importanza  del suo valore simbolico e della sua capacità di esprimere funzionalità e razionalità d’uso.

E’ importante considerare il modo in cui l’edificio è capace di armonizzare l’attività pubblica con quella di chi al suo interno abitualmente opera, misurandosi con la necessità di fondere una molteplicità di modalità d’uso con l’espressione di solida unità.
Nel caso di un Palazzo di Giustizia poi, occorre chiedersi quali sono i valori fondativi di una convivenza democratica in un momento così delicato e individuale come quello del giudizio.  E’ facile analizzare attraverso l’iconografia tradizionale le forme che questa istituzione ha assunto nel tempo, il modo in cui, secondo le epoche, alcuni elementi linguistici si sono ripetuti o hanno preso il sopravvento per esprimere il ruolo simbolico dell’edificio all’interno delle città. 

Più difficile è valutare come un’istituzione realizzata attraverso tipologie innovative possa contribuire alla crescita democratica. Uno spazio efficiente e organizzato, in grado di inserirsi in un contesto in modo appropriato, attento all’ambiente e capace di ridurre i consumi di chi lo utilizza senza sacrificare il comfort, offre un esempio concreto di sostenibilità capace di dare corpo alle aspettative della collettività.

Se si parte da queste considerazioni generali è più facile comprendere  il significato di alcune scelte fatte nel corso della progettazione del Palazzo di Giustizia di Pesaro - commissionato a De Carlo nel  lontano 1992 e ultimato nel 2005 - alle cui fasi ho avuto la fortuna di partecipare.

Assumendo che il giudizio, come atto costituzionale, individua un momento in cui il diritto assume una forma concreta, si può osservare che ogni cittadino dovrebbe sentirsi più tutelato se questo momento avviene in un clima di equilibrio, efficienza, apertura e trasparenza, anzi se lo spazio in cui questa attività si svolge è inserito in un contesto che di questi attributi diventa quasi una metafora espressiva.  
Chi giudica, nel momento del giudizio è solo, ma lo fa a nome di una collettività:
“….a nome e per conto del popolo sovrano…” dice la Costituzione e c’era una Circolare, valida al momento della realizzazione del Palazzo, che imponeva che questo principio fosse trascritto e apparisse dietro la figura del giudice monocratico nelle aule di dibattimento penale a ricordare la solennità della democrazia.
Questo principio introduce un tema cruciale per l’architettura che riguarda il rapporto tra il singolo e la collettività. 
Si è già detto quanto sia importante la condivisione di un programma e quanto il processo di acquisizione delle informazioni diventi cruciale per la riuscita di un progetto, ma occorre sottolineare che questa delicata fase di elaborazione è già una parte integrante del progetto e che occorre allargare la base di condivisione se si vuole essere certi che il programma promuova un’azione realmente e concretamente democratica. La bellezza poi sta anche nella capacità di armonizzare le scelte, nell’ispirazione che ci guida, nella bontà delle premesse che si pongono, nella capacità di capire i luoghi e di interpretarli…….


In che modo princìpi come questo del rapporto tra singolo e collettività assumono un’evidenza spaziale?  Come dare visibilità concreta e “simbolica” senza cadere in tentazioni retoriche?  Dove collocare, all’interno del sistema di circolazione razionale che deve garantire sicurezza nell’uso, le aule dibattimentali la cui forma è vincolata al rituale procedurale?  Che rapporto possono stabilire le aule di dibattimento, nel momento cruciale del rito collettivo, con gli uffici, gli sportelli, gli spazi di attesa?
A Pesaro, occorre premettere, tutto gravita intorno ad una grande corte pubblica, articolata su due livelli, sulla quale si aprono le “corti” di dibattimento penale e l’aula Gip.  
Ampi spazi pubblici, con presenza di verde e inondati di luce naturale sui quali si affacciano tutte le attività e verso cui gravitano gli spazi di attesa, sono aperti alla libera circolazione.
Le due aule maggiori si sviluppano su due livelli e dal primo livello della corte ci si può affacciare e, attraverso una vetrata, addirittura seguire lo svolgimento dell’udienza. 
E’ stato osservato da alcuni magistrati, abitualmente impegnati in udienze penali, che poter vedere il pubblico muoversi e osservare liberamente durante i processi,  rammenta concretamente che la delega a giudicare proviene dalla società civile e crea un’atmosfera di trasparenza in cui nulla si cela e le procedure appaiono più chiare ed efficienti.
Le aule di dibattimento civile sono quattro, all’occorrenza accorpabili a due a due,e divise da pareti scorrevoli.  Si aprono attraverso una vetrata continua verso la piazza e a dar loro accesso è un ampio ballatoio che si apre sulla corte centrale.
E’ da considerare che il programma di utilizzo è stato perfezionato con l’aiuto di una commissione interna di Procura e Pretura e da una stretta collaborazione con i funzionari che hanno contribuito a interpretare procedure e normative in modo da renderle più aderenti al contesto reale.
Il programma definitivo nasce quindi da una stretta collaborazione tra utente e progettista, sotto la supervisione del Comune di Pesaro che allo sviluppo del progetto ha assegnato l’assistenza continua dell’architetto responsabile del Settore Nuove Opere, Veris Mosconi.  Perfezionare la razionalità d’uso ottimizzando gli spazi di lavoro e favorendo una libera e continua circolazione senza recessi e strozzature nelle zone frequentate dal pubblico sono princìpi che concorrono alla creazione di uno spazio in cui la collettività si sente più a proprio agio. 
La luce naturale che inonda lo spazio dall’alto ne potenzia l’effetto di ampiezza, trasformandolo in una grande piazza urbana.  La presenza del verde nella corte, come quella del giardino pensile aperto al pubblico sulla copertura del secondo livello, aggiungono un elemento di ulteriore accoglienza e contribuiscono a conferire all’atmosfera generale un carattere disteso.
Questa ricerca di fluidità e permeabilità dell’edificio riguardava anche il ruolo urbano che il Palazzo avrebbe assunto: una cerniera tra il centro storico e l’area più periferica che si sviluppa verso la ferrovia e che la città nel tempo si è conquistata.
Il Palazzo ha un doppio accesso e un doppio fronte, del tutto equivalenti. Si rivolge al centro e alla periferia. Si apre indifferentemente sui due lati, senza perdere il suo carattere tradizionale di Palazzo. Non bisogna dimenticare che la tradizione marchigiana offre esempi preziosi, come il Palazzo Ducale di Urbino, sui cui due affacci si organizza l’intero nucleo urbano.  Se non fosse per i controlli necessari a garantire la sicurezza all’interno dell’edificio, il “foro” potrebbe completare la sequenza degli spazi pubblici dalla piazza Carducci al piazzale intitolato al Giudice Bachelet verso la ferrovia, mettendoli in connessione diretta.

L’ultimo aspetto che vale la pena di segnalare riguarda la biblioteca, che nasce  all’interno della corte e galleggia sospesa come una semisfera rivestita in tessuto teso su membrature in acciaio e attraversata da un cono di luce. 
Questa struttura flessibile e imprevedibile, chiara, leggera e permeabile alla luce, costituisce una vera sorpresa per chi dall’esterno varca la soglia dell’edificio.
Costituisce un elemento di imprevedibilità e leggerezza, diventa un centro di natura elastica e flessibile in cui l’esiguità dimensionale delle strutture portanti  rivela tutta la raffinatezza del calcolo di Massimo Majowiecki e realizza un immediato contrappunto alla rigidezza strutturale e percettiva delle pareti in calcestruzzo. 
Come nella tradizione marchigiana le facciate del Palazzo sono rivestite di laterizio artigianale – qui interpretato in lastre di grande formato della misura di quasi 60 cm -  la cui irregolarità offre alla luce una superficie ricca di vibrazioni e colore.
L’edificio in forma di palazzo, che riporta nelle proporzioni e nel rivestimento alcuni degli elementi più classici della tradizione marchigiana, è entrato senza forzature nell’uso della comunità locale e ha risposto in modo soddisfacente alle necessità espresse da chi al suo interno quotidianamente svolge il proprio lavoro.

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Profilo degli Autori

Monica Mazzolani e Antonio Troisi hanno cominciato a lavorare nello studio di Giancarlo De Carlo subito dopo la laurea, nel 1988, fino a diventarne associati nel 2002.  Con lui hanno condiviso non solo i progetti e il modo del tutto singolare di affrontarli, ma hanno anche partecipato a molte delle iniziative culturali che facevano capo allo studio.
Oggi, come Giancarlo De Carlo e Associati e MTA Associati, continuano a lavorare sia ai progetti ancora in corso che ai progetti nuovi con lo stesso spirito di ricerca aperta, di concretezza e di utopia, di sperimentazione, assimilati e fatti propri in tanti anni di lavoro comune.
Il Museo Osservatorio a Urbino, il Parco delle Piagge a Firenze, il Parco delle Torri e le residenze nell’area ex-Falck a Sesto San Giovanni (MI), il quartiere residenziale a Wadi Abou Jmeel a Beirut sono alcuni dei progetti ai quali stanno lavorando, oltre alla partecipazione a concorsi in Italia e all’estero:  fra quelli a cui sono stati invitati sono risultati vincitori per un complesso residenziale turistico integrato nella Regione di Al Batinah, in Oman.