RICORDO DI JUDITH MALINA

ultima modifica 12/04/2015 13:59
Il 10 aprile è scomparsa la grande artista fondatrice e direttrice con Julian Beck del Living Theatre nel 1947. Il ricordo della sua presenza e della sua lezione di teatro e di vita all'Università di Ferrara.

L’avevamo incontrata l’ultima volta all’Università alla metà di giugno 2007 quando, insieme ad Hanon Raznikov compagno nel teatro e nella vita, Judith Malina aveva dialogato con studenti e allievi del Centro Teatro Universitario in un’intensa mattinata di trasmissione di esperienza, su invito di Michalis Traitsis, suo allievo negli anni dell’approccio al teatro. In quell'occasione vi fu anche la possibilità di fare conoscere a una nuova generazione il percorso del Living Theatre, fondato con Julian Beck nel 1947, attraverso il film documentario "Resist" realizzato da Dirk Szuszies e Karin Kaper nel 2003.

Poi vi fu l’incontro con l’allora Rettore, Patrizio Bianchi, che con molto entusiasmo ospitò a palazzo Renata di Francia i due artisti manifestando una profonda gratitudine per il ruolo che il lavoro del Living Theatre aveva avuto per la sua formazione giovanile quando aveva potuto assistere agli spettacoli al tempo nel repertorio della compagnia presentati nel cartellone del Teatro Comunale.

Il 10 aprile 2015, a sette anni dalla prematura scomparsa di Hanon, a quasi 89 anni ci ha lasciato anche Judith nella casa di riposo Lillian Booth Home, nel New Jersey, gestita dall'Actors' Found. Qui, l'attrice e regista, viveva da diverso tempo poiché, come riportano le cronache, non aveva mezzi per mantenersi non avendo mai ricevuto aiuti dal governo statunitense per sé o per il gruppo.

Eppure, nonostante l’età avanzata e costretta a muoversi su una sedia a rotelle, ma con una lucidità mentale fuori dal comune, Judith Malina non si sottraeva agli incontri, soprattutto negli spazi a lei più congeniali per militanza artistica e politica, come ad esempio nell’estate del 2013 quando – sempre su invito di Michalis Traitsis nell’ambito del progetto “Passi Sospesi” – l’artista si confrontò con le detenute della Casa di reclusione di Giudecca a Venezia sul dramma di Antigone. Ella stessa nel 1967 aveva interpretato il personaggio di Sofocle al quale le detenute di Venezia si erano avvicinate, all’interno di un progetto che vedeva come partner un gruppo di allieve del CTU ferrarese.

Non va nemmeno dimenticato, sempre a Ferrara, l’importante progetto “Living Theatre” del 1999 che, in collaborazione tra Teatro Comunale, CTU e l’Associazione studentesca Agorà, aveva portato il gruppo in città per una settimana di lavoro nel corso della quale si realizzarono presentazioni di materiale video, un incontro con Judith Malina e un intenso laboratorio teatrale per la preparazione dello spettacolo “Not in My Name”, proposto nello spazio aperto di Piazza Castello con Hanon Reznikov, Gary Brackett e i giovani allievi del laboratorio, per la regia della stessa Malina. Un titolo emblematico per quello spettacolo e indice dell’impegno politico e civile del Living Theatre sempre perseguito fin dalla fondazione. Una manifestazione o veglia, sotto forma di performance, contro la pena di morte che aveva visto la luce nel 1994 a Times Square, New York, e ripetuta ogni qualvolta era annunciata un’esecuzione capitale, poi portata in giro in varie parti del mondo coinvolgendo chi ne era spettatore in una maniera attiva, vale a dire chiamandolo ad affrontare direttamente e senza deleghe la responsabilità di scelta sulla propria vita e su quella di coloro che fanno parte della comunità. Un atteggiamento radicale, vivente e concreto, che ha improntato l’intero percorso  del Living Theatre dando senso altrettanto concreto a un’idea di teatro come partecipazione, andando oltre i significati stessi della parola. Un’utopia vivente, che Malina ha continuamente alimentato per tutta la vita in settant’anni di lavoro, con spettacoli come “Mysteries” o “Paradise Now” e i tanti altri portati in spazi non convenzionali come strade, carceri, fabbriche, università di tutto il mondo, e che hanno formato generazioni e contribuito alla crescita di un pensiero non solo teatrale. Come ricordava Traitsis presentando l’incontro con le detenute di Venezia, Judith Malina ha testimoniato “con generosità, instancabilità e tenacia, la forza di una convinzione e di un impegno per una cultura non violenta, il coraggio del mettersi in gioco sempre, senza risparmio, la capacità di trasformare il dolore in arte, l’irriducibilità di una passione, quella del teatro – di un teatro di senso e di impegno – a prescindere dall'età e da qualsiasi pregiudizio, l'appartenenza ad una compagnia che ha attraversato molte difficoltà, la capacità di affrontare infiniti cambiamenti senza resa”.

Una straordinaria figura di donna dunque, e non unicamente – lei e i suoi compagni – una pietra miliare nella storia intera del teatro e non del solo XX secolo. Per questo crea non poco imbarazzo leggere in rete titoli adeguati alla peculiare nullità di certa comunicazione odierna, come “E’ morta Judith Malina, la nonna de “La famiglia Addams”. Certo, Judith è stata anche quello, probabilmente per il suo Living mai finanziato e sempre maltrattato dal potere, con arresti ed espulsioni da vari paesi, anche in Italia, per la sua perturbante azione di risveglio delle coscienze. Preferiamo ricordarla con una sua frase, negli incontri ferraresi del ’99 quando, parlando di un invito agli spettacoli della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra, si era vista offrire un bicchiere di vino da un detenuto con una svastica tatuata sul braccio. “Io, ebrea – raccontò – figlia di un rabbino emigrato dalla Germania negli Stati Uniti quando avevo tre anni (nel 1929), vedendo quel simbolo tatuato sul braccio ho avuto un brivido, ma ho accettato il bicchiere di vino perché, rifiutandolo, avrei smentito tutto ciò in cui ho sempre creduto”. Ovvero la cultura politico-comunitaria fondata sull’anarchia non violenta. Ma rammentare anche, fra teatro e vita, uno dei passaggi del dialogo con le detenute della Giudecca: “Chi come voi non ha mai fatto teatro non deve tentare di rappresentare un personaggio estraneo da sé, ma cercare entro se stessa alcuni elementi di quel personaggio; questo può essere ovvio quando si rappresenta Antigone, ma cosa succede quando si deve dare vita a un personaggio negativo e spietato come Creonte? Tutti noi abbiamo un piccolo Creonte dentro, se capiamo questo capiamo meglio il mondo e ancor più la sua crudeltà e possiamo confrontarci con essa con una forza drammatica più efficace e vigorosa”.

Daniele Seragnoli