"CANTICA DELLE DONNE": recensione dello spettacolo

ultima modifica 05/10/2015 09:46
Teresa Megale, docente di Storia del teatro all'Università di Firenze e direttrice artistica della compagnia di teatro universitario "Binario di scambio", dopo avere assistito allo spettacolo "Cantica delle donne" ci invia una recensione che volentieri pubblichiamo.

 

 

Il rito dell’innocenza teatrale perduta.

Cantica delle donne al Centro Teatro Universitario di Ferrara

 

Che il teatro sia catarsi è certo da almeno due millenni e mezzo, che sia anche salvifico non è poi esperienza così immediata e men che mai scontata. Accade raramente, ma quando accade è un evento che non può essere sottaciuto, né condannato all’oblio, che tutto offusca e livella. Nel teatro dell’Università di Ferrara, nel quale grazie all’impegno convinto e generoso di Daniele Seragnoli l’arte più antica del mondo si rinnova da circa un quarto di secolo, la Cantica delle donne, messa in scena dal regista greco Michalis Traitsis con alcune detenute del carcere veneziano della Giudecca, ha smosso le coscienze dei numerosissimi spettatori. Nella casa natale di Savonarola, nella quale per nemesi storica è rinata la ‘vanità’ teatrale sotto le vesti di teatro sociale, quattro donne, quattro vite disperate, pasolinianamente violente, accompagnate da una polistrumentista e cantante dalla voce calda, hanno officiato uno straordinario rito. Il rito dell’innocenza teatrale, saturo di un’autenticità sconcertante.

Si potrebbe scomodare Artaud per dire quanto necessario sia questo teatro e quale esperienza liberatoria possa costituire, si potrebbe parlare della biopolitica foucaultiana e chiamare a raccolta ideologi e teorici delle forme rappresentative, ma a nulla servirebbe. Occorre essere di fronte a queste attrici, umili e semplici, ed essere investiti dalla loro tracimante umanità. Farne esperienza. Qui nel contenuto rettangolo di un palcoscenico che vibra di quell’innesto raro, eppure preziosissimo, di ricerca e di didattica, una prodigiosa energia femminile ha coinciso per una sera perfettamente con l’energia teatrale, e una vitalità debordante e oltre misura è uscita fuori dai corpi e dalle voci fino ad investire la platea, immersa in un silenzio partecipe e attento. Da principio recitano da sedute, poi si avvicinano al leggerissimo sipario fatto di corde di spago che rigano i loro corpi, rimando fin troppo efficace agli spazi concentrazionari entro cui sono costrette a vivere. Non soltanto per questo lo sguardo fiero, potente delle quattro donne, una marocchina, una rumena, una rom, una italiana, confezionano uno spettacolo di forte e inusitata potenza. Come per un sortilegio, adeguatamente preparato dal lungo e paziente lavoro laboratoriale di Michalis Traitsis, brevi sequenze monologanti affidate alla memorizzazione superano arditamente lo scoglio linguistico. Gesti pochi, precisi, essenziali, narrano le molte privazioni e le poche gioie, i troppi sogni e i desideri struggenti, la nostalgia della libertà e dell’erotismo rimosso da queste vite e da questi corpi negati.

La drammaturgia spontanea intreccia ricordi e sfoghi ironici, mescola danza e musica, interseca scrittura collettiva e persino poesia, come l’intensa Sii dolce con me. Sii gentile di Mariangela Gualtieri. Il dire le proprie più intime sofferenze, impastandole di sonorità mediterranee (gli splendidi canti siciliani intrecciati con quelli arabi), rende sopportabile la condizione di recluse rese libere per il tempo inconsistente di una rappresentazione.  Come documenti del loro inossidabile dolore, si appendono i testi, come si fa con il bucato, poi dopo aver sciorinato il male, si ritorna al proprio posto per ascoltare quello altrui. Non indossano maschere e non sono personaggi, sono se stesse, persone che si offrono in tutta la loro sorprendente umanità, donne autenticamente nude, senza sovrastrutture, che diventano dei potenti contravveleni al teatro troppo omologato dei professionisti e alla sua funzione prevalentemente ipnotica, per usare la frase che Andrea Zanzotto applicava al linguaggio. Come statue sedute su sgabelli, guardano il pubblico, quasi lo scrutano con una dignità e una fierezza particolari: più che ‘reggerne’ lo sguardo, lo ‘attraversano’. Ed è così che fanno toccare il dolore vero, rendendolo percepibile, trasformandolo in tangibile portato emozionale. Ed è per questo che le loro lettere performate, testimoniali, sono in grado di formare una comunità di ascolto sensibile e di attivare uno scambio alla pari. Complice la musica e catturati dal canto di Lara Patrizio, ci si affranca dalla nostra acquiescenza ai più vari automatismi e si bandiscono gli stereotipi. Allora il teatro è rinascita, rinnovamento, è vita che si autoalimenta e prende nuove forme, è persino guarigione per chi lo fa e per chi vi assiste.

Oltre la soglia dell’angoscia, anche secondo il dettato lacaniano, c’è il teatro. Arte dell’oltre, dell’attraversamento dei corpi e delle esistenze, il teatro consiste nel superare il limite, nell’essere un fuori norma indispensabile per accettare la dimensione normata dell’esistenza. Superfluo aggiungere che ciò che qui ha valore non è il teatro in senso astratto, bensì la ricerca del teatro e delle sue potenti e misteriose radici, incarnate lontano dai contesti ufficiali, in spazi universitari nei quali al di là di pregiudiziali e radicati steccati allignano caparbiamente la pratica e lo studio, due inscindibili volti di quell’unica, composita medaglia che chiamiamo teatro.